Gettare il portafoglio, e non il cuore, oltre l’ostacolo

Ormai da qualche decennio le multinazionali globali hanno fatto, delle strategie di elusione fiscale, uno sport. Attenzione, non stiamo parlando di evasione fiscale, ma del fatto che le multinazionali abbiano sfruttato e sfruttino, a proprio vantaggio, le pieghe del sistema impositivo a livello globale, scegliendo di eleggere il loro domicilio fiscale dov’è più vantaggioso. La liceità del comportamento è legata alla sensibilità di ognuno di noi, ma se mi chiedessero se voglio pagare molte tasse oppure poche, non avrei dubbi di natura morale, come singolo individuo. Forse, trattandosi di società, dunque di entità che hanno una loro funzione sociale, oltre che economica e politica, il gioco si fa più complesso. Pagare le tasse nel luogo in cui si producono i beni è un modo per restituire un impatto positivo sul territorio, non solo in misura e in funzione dei servizi di cui si usufruisce, ma anche come contributo a quella collettività di cui si è, bene o male, espressione.

Naturalmente, in questo ambito, sono tutti pecore bianche, anche molte grandi aziende italiane si sono adeguate e hanno fatto, dell’ottimizzazione fiscale, il motivo di un trasferimento della loro sede nei cosiddetti paradisi fiscali europei: Olanda, Lussemburgo e Irlanda in testa. Non solo Stellantis o Ferrero, per dirne di alcune, ma anche diverse grandi partecipate di Stato. Nei comunicati stampa diffusi a ridosso della notizia del trasferimento, certamente non sbandierata, si è parlato di scelte sofferte, ma necessarie per affrontare ad armi pari la concorrenza con altre big internazionali. E’ pur vero che sostenere la concorrenza con imprese che possono contare su bassissimi prelievi fiscali, che incidono quindi poco sulla loro operatività di cassa e quindi capacità di investimento, non è sostenibile. Ma è altrettanto vero che, ricollocare le casseforti, rende ancora più labile il legame tra le aziende e il nostro Paese, dove il loro cuore, se non la loro produzione nell’immaginario collettivo, continua ad essere. 

Sta di fatto che le molteplici legislazioni nazionali e la mancanza di decise politiche internazionali hanno permesso questo stato di cose. Favorevole senz’altro a Paesi come l’Irlanda, e nel blocco del Regno Unito, l’Isola di Mann, dove il regime fiscale è da sempre fattore chiave per l’attrattività di nuove imprese o di nuove sedi, per quelle storiche e già affermate. Ma non dobbiamo dimenticare un altro aspetto. In Irlanda, e generalmente dove l’imposizione fiscale è più soft, come in Delaware negli Stati Uniti, al fianco di regimi fiscali favorevoli abbiamo una burocrazia che permette e che attiva nuova impresa e nuove incorporazioni. Cioè, in quei Paesi, la burocrazia è strumento di crescita e di innesco per il lavoro e l’impresa. Raccontava un giovane imprenditore italiano che aveva deciso di aprire in Irlanda una nuova impresa, non legata al web, che, come primo passo, si era recato nel business center (là ne hanno, come noi abbiamo i gelatai) di una piccola città. Là gli avevano fissato un appuntamento in giornata con il Sindaco e l’assessore all’urbanistica, che gli avevano parlato di una nuova area di sviluppo industriale in cui avrebbero potuto ospitare la nuova impresa. Avrebbero modificato il piano urbanistico e le infrastrutture per permettere l’insediamento. Cioè, incredibile per noi Italiani, avrebbero fatto un progetto sulle necessità di chi avrebbe usato l’area, e non otto piani urbanistici e dodici vincoli paesaggistici emersi e chiariti solo quando l’acquirente abbia avuto la malaugurata idea di stanziarsi. Quei Paesi hanno, alle spalle, non solo una imposizione fiscale di favore, ma anche una cultura del lavoro e dell’impegno civile, politico e sociale che altri Paesi possono solo invidiare.

Se le imprese non vengono da noi, non è dovuto al solo fatto che abbiamo un regime di tassazione più alto che in Irlanda. Non vengono da noi perché le tasse sono spezzettate in innumerevoli balzelli, tortuose trame e imposte. Risultano difficili e complesse, e innescano due meccanismi perversi. Il primo: dove c’è poca chiarezza è più facile, per il contribuente anche onesto, cercare scappatoie e buchi procedurali. Il secondo: la poca chiarezza rischia di ingenerare discrezionalità enormi nell’imposizione fiscale, come nel trattamento, da parte dell’ente pubblico, a seconda della dimensionalità e della “incidenza” dei soggetti.
Uno degli esempi più noti dello schema di elusione legale riguarda Apple che, per anni, ha trasferito i profitti alle filiali con sede in Irlanda. Nell’anno fiscale 2017, la società ha avuto, secondo una stima presentata dal Dipartimento del Tesoro americano, più di centoventotto miliardi di dollari di profitti incanalati in società offshore, e dunque fuori dalla portata delle autorità fiscali statunitensi.
Ora, dopo anni di crescente indignazione per queste elusioni legali, e dopo la pressione che gli Stati Uniti operano sui partner globali da decenni, i governi stanno agendo in maniera coordinata, proponendo di adottare un’imposta societaria globale minima, una minimum tax al 15% che eliminerebbe, o almeno ridurrebbe, gli incentivi per le aziende con sede in un paese, a spostare parti delle loro operazioni in altri paesi con aliquote fiscali più basse. L’idea alla base della proposta del Presidente Biden, rilanciata nelle ultime settimane dal G7 e dal G20, è che, se devi pagare il quindici per cento di tasse, indipendentemente da dove dichiari il tuo reddito, non c’è motivo di cambiare la sede legale della tua società.

Non tutti i Paesi sono d’accordo (chissà come mai l’Irlanda è tra le poche nazioni ad opporsi), mentre le multinazionali hanno fatto buon viso a cattivo gioco, dicendosi pronte ad adeguarsi. Ma sono due i temi che preme considerare: il primo, oltre che una tassa minima globale mi sarei aspettato, dal G20 a guida Italiana, anche una tassa massima globale, che dicesse insomma agli Stati che oltre una certa cifra non si può proprio andare. Il secondo: avendo parità di condizioni tra gli Stati, cioè qualora una tassa minima globale fosse implementata, le carte della competitività saranno più difficili da giocare. E l’attrattività del nostro Paese dovrà passare necessariamente dalla semplificazione della nostra elefantiaca burocrazia, una delle piaghe nostrane per cui, tassazione di favore o meno, l’Irlanda rischierà di essere, comunque, sempre più verde di noi.